Lassa che i zuga

 
 

«Bala che vegna!» Minico Bardassa
rebate el colpo che vien zò dal çiel,
e tuto quanto in giro par la piassa
cioca e se spande el son del tamburel…

E la ciesa parlando al so moroso
campanil, che s’imbestia in fondo al prà,
par che la diga: «No èssar geloso!
Lassa che i zuga… Dopo i morirà!

Ho visto i pari de so pari, i noni
de so noni zugar sempre così.
Sta pora gente m’à magnà a boconi,
ma el toco grando el t’è restado a ti.

E’ passado paroni con paroni,
s’à cambià cento volte la çità!
Vecio, no brontolar! Dormi i to soni…
Pensa! Mile ani…E semo ancora quà!»
(Berto Barbarani)

Così ieri è iniziata la conferenza che ha dato il via a questo 15° Tocatì. Certo cominciare con i versi di Barbarani mi ha fatto venire un po’ la pelle d’oca perché le parole del vernacoliere veronese rispecchiano veramente quello che è, e rappresenta il gioco di strada.

Il riappropriarsi fisicamente delle strade, piazza e di ogni angolo di una città sono in effetti il vero spirito di questa manifestazione che da diversi anni porta tra la gente il gioco inteso in quattro dimensioni in cui spazio e tempo sono davvero essenziali.

È anche il ricordo di chi ha giocato per strada e vuole trasmetterlo alle generazioni di adesso. L’importanza di divertirsi attraverso un corpo non solo fisico ma anche mentale. Lo scontro fisico, il corpo a corpo ci insegna quali siano i nostri limiti (fisici/mentali), i confini nostri e di chi gioca (e ci sfida), ovvero la corporeità dell’altro da noi.

Un giocare in modo materiale (i corpi) ma anche immateriale (la nostra mente); e gli strumenti del gioco diventano parte di noi.

La conferenza ha voluto sottolineare ed evidenziare, raccontando, le esperienze legate a due modi di divertirsi all’apparenza differenti come la Lippa (lo s’cianco) e la lotta nello loro diverse declinazioni dovute a differenti visioni perché provenienti da comunità diverse.
Un modo di vedere gli stessi giochi con occhi diversi ma uguali perché lo spirito è stato, è e sarà sempre lo stesso.

La professoressa Berti dell’Università di Tubinga ha sottolineato come l’aspetto del ricordo, della ripresa e del divertimento siano sempre alla base di un gioco all’apparenza così semplice come lo s’cianco.

In realtà regole, modi di dire, modi di giocare si differenziano, si esplicano in maniera differente non perché siano differenti i giocatori bensì perché non sono uguali i vissuti della comunità dove questo gioco è nato.

Ecco allora nomi diversi, regole diverse, atteggiamenti differenti. Tutto sembrerebbe portare ad una diversa concezione del gioco. In realtà qualcosa di magico e ancestrale rimane uguale.

La stessa docente infatti ha evidenziato l’aspetto fondamentale ed intrinseco che sta alla base: il divertimento. Lei stessa ha voluto chiedere ad un giocatore come mai dopo tanti anni volesse ancora giocare a s’cianco e la risposta, disarmante nella sua semplicità, risulta, forse, ai più di noi, banale ma per chi ama giocare è il vero motore di tutto: “zugo perché me godo”.

Ecco, il divertimento, la vera anima del gioco che va oltre le regole, il mettersi in discussione, il cercare il risultato a tutti i costi. Certo vincere fa piacere a tutti ma se non mi diverto certamente non giocherò più.

Nella foto il Presidente di AGA, Paolo Avigo (il primo da destra) e gli amici sardi che saranno ospiti al Tocatì con una forma particolare di lotta: S’Istrumpa.

Qualcosa di magico e intangibile è alla base del giocare per strada, del divertimento puro e semplice. Quante volte anche il sottoscritto da piccolo ha giocato a s’cianco ma soprattutto ha giocato per strada.

Ecco che le parole di Barbarani riecheggiano nella mente di chi ha saputo godere di momenti di puro divertimento, di ginocchia sbucciate di sgridate della mamma per i graffi e il sangue che usciva dalle ferite ma anche del sorriso di un bambino che sapeva divertirsi con poco.

Quel fanciullino di pascoliana memoria che ognuno dovrebbe sempre ricordare. Qui le regole le facevano i bimbi per strada. Ritornano, come ha sottolineato la prof.ssa Berti, i ragazzi della via Paal di Molnár. E allora lassa che i zuga perché solo così il bambino riaffiora, il divertimento ritorna e si torna a casa forse stanchi ma felici.

Differente ma allo stesso modo intrigante anche la declinazione antropologica legata alla Lotta. Il prof. Zingari ha voluto sottolineare gli aspetti corporei (e non solo) di una forma di gioco dalle origini davvero lontane.

Gli studi in Senegal, come ha sottolineato il docente dell’università di Torino, rimandano a rituali a volte incomprensibili ma ben legittimati dalla comunità dove nascono. Un corpo a corpo che prevede regole, atteggiamenti e sfide con sé stessi e con gli altri.

Le osservazioni derivanti dalla ricerca in Africa del prof. Zingari hanno evidenziato che lo sfidarsi non si sviluppa solo all’interno di una singola comunità bensì va oltre. Mette in competizione differenti comunità.

Nasce la relazione. Spazio e tempo vengono ridefiniti all’interno di una visione del gioco sempre quadrimensionale. Aumentano i contatti tra soggetti appartenenti a diverse realtà. La sfida non rimane più all’interno dei confini di una comunità bensì si allarga. Si espande a realtà altre da noi.

Ecco che ritorna la convivialità, l’inclusione. Esperienze nuove includenti nuove forme di crescita culturale (non solo fisica che determina chi sia il più forte). Non è solo una questione di vittoria/sconfitta.

È un aspetto che appartiene anche alla sfera intima, allo svelarsi agli altri. Questo certamente comporta delle mediazioni. Non è solo uno scontro bensì un incontro.
La scelta di studiare una forma di incontro/scontro non è casuale.

Osservare le declinazioni antropologiche di diversi villaggi che entro alcuni frame parlavano lo stesso linguaggio del corpo, quello che si metteva in gioco nello scontro che diventava solo un momento non solo di vincere ma di dimostrare che vi era una superiorità che andava oltre la sfera puramente fisica.

S’intuisce allora che le cornici in cui si declinano questi avvenimenti non sono impermeabili bensì in modo osmotico permettono la contaminazione tra realtà differenti.

Si pensi all’importanza assunta in Senegal di questa forma/disciplina. Questa forma di gioco infatti è attualmente la forma ludica più famosa del paese.

Facendo un paragone con il calcio nel nostro paese è possibile affermare che in Senegal la lotta sta alla popolarità come da noi il calcio sta alle discussioni da bar (e non).
È sempre una questione di frame, di comunità, di società, di vissuto spazio – temporale. Quello che per noi conta per altri non ha valore. Non esiste allora un assoluto bensì un assoluto-relativo.

Per questo accettare l’altro significa anche accettarne le diversità, qualsiasi esse siano. Ecco che dal punto di vista sociale e antropologico il gioco e il corpo si mettono in relazione continuamente e i contatti tra comunità differenti permettono non solamente inclusione/esclusione ma anche confronto e questo è un punto di partenza per crescere e allargare gli orizzonti.

Il gioco diventa allora un mezzo per crescere e il corpo con i suoi messaggi, fisici e non, permette di trasmettere informazioni per sviluppare sempre nuove sfide.
Non è più solo un gioco, non si tratta più di corpi bensì di realtà materiali/immateriali capaci di far assaporare pienamente le sfide quotidiane tant’è che il gioco, alla fine, diviene metafora della vita.

 
 
Sono di Verona, nato il 15 gennaio, quindi Capricorno. Ho un temperamento deciso ma anche la giusta allegria per le origini senesi del nonno paterno. Ho una laurea magistrale in editoria e giornalismo conseguita con il massimo dei voti. Iscritto All’ODG del Veneto, nel tempo libero sono istruttore minibasket a Lugagnano. Scrivo per il Corriere dello Sport. Credo neello sport per tutti. Nel 2014 la mia passione mi ha portato a Sochi per seguire i Giochi Paralimpici Invernali. Amo il Teatro: Shakespeare in particolare. Mi piace il nuoto e quando posso vado in mountain bike. Sono sincero: dico sempre quello che penso. Sempre di corsa ma mi piace così.

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