Avevamo un genio e non ce lo siamo ancora meritato. Ciao, Paolo.

 
 

Per giornate e momenti come questi val bene anche una mostruosa orticaria (tranquilli, è tutto psico-somatismo auto-indotto nei confronti dell’abuso, ormai dilagante e perennemente decontestualizzato di qualsiasi tipo di citazione). Questa volta, però, mi serve tutta.
Così Oreste del Buono scriveva la sua voce per raccontare Carmelo Bene: «Abbiamo un genio in Italia e non lo meritiamo. Cosa ne facciamo? Un genio è inutile, ingombrante, preoccupante, nella nostra stupida società, magari dannoso. Infatti egli non rispetta il sacro dei luoghi comuni della destra e della sinistra. La soluzione più indicata per contenerlo, paralizzarlo, neutralizzarlo, questo genio, sarebbe probabilmente di tributargli un grande successo. Decretargli un successo davvero popolare».

Tra Campi Salentina (Bene) e Genova (Villaggio) ci sono, ad aver fortuna, benzina sufficiente e senso dell’orientamento, 1048 chilometri. In queste righe, pensate, le due città sono separate soltanto da una “e”.
E ora? Che faccio?” L’ammazza-caffé anticipato di questo lunedì mattino è rappresentato da un senso di vuoto emozionale, vertigini dentro un animo che deve ora fare i conti con il rumore di un libro che si chiude per sempre. Quelle pagine tragiche e, nuovamente, mostruose, di crudo e genuino realismo che Paolo Villaggio ha voluto regalarCi.
Non fosse per la piccola e sicuramente insufficiente prova di testimonianza che mi sono prefisso di scrivere, non servirebbero né un istante né centomila anni per spiegare il “genio” di Villaggio. Si è scritto (e ancor oggi si persévera) “in tutti i modi, in tutti i luoghi, in tutti i laghi” (ahia! un’altra citazione) che “Fantozzi è ognuno di noi“.
Bellissimo. Tanto vero quanto auto-indulgente.
Il processo di riconoscimento e di identità che l’Io compie dall’alba della nostra vita psicologica non ha mai tenuto conto di aspetti legati alla società, alla politica, alla morale.
Fantozzi con il suo risveglio mattutino programmato “ai limiti delle possibilità umane” è come un piccolo “The Dark Side of the Moon” all’italiana.
Come il disco del quartetto inglese, così anche Ugo racconta il folle ed esasperante patto con l’ignoto che facciamo quotidianamente per darci regole, scansioni temporali, gerarchie sociali e, soprattutto, congiuntivi meravigliosamente errati.
Il cartellino del lavoro del rag. Fantozzi, matricola 7829/bis dell’ufficio sinistri, è il “punto e a capo, fin qui ci sono arrivato” di un’Italia che politicamente e spiritualmente non c’è più, i cui figliastri adottivi sono gli odierni Curriculum Vitae che nemmeno ci arrivano in fondo a quel corridoio, corso dal ragioniere fino allo sfinimento (“senza aiuti, altrimenti è squalificato”, altra cit.)
Dalla regia, inoltre, posso scorgere drammatici sguardi di “leggerissima” minaccia circa la lunghezza di questo mio pensiero, percui a nulla varrebbe il tentativo di riassumere l’intensità umana di quel “Ti stimo” tra la sig.ra Pina e il rag. Ugo. Debbo tralasciare anche la doverosa menzione del rag. Filini (sappiate che ce ne è uno dentro ciascuno di noi), la babb…la bertucc…ehm, la figlioletta Mariangela (a voler estremizzare forte, ella potrebbe rappresentare un punto d’attracco-non voluto con “l’intelligenza zero” di Kubrickiana memoria, ma qui credo di volare forse troppo alto e mi taccio).

Insomma.
Lo abbiamo amato tutti, questo Fantozzi. Da dietro un vetro.
Il vetro della vanità, del narcisismo radical-chic, dell’utilitarismo fine a sé stesso.
Una grande lezione tutt’ora inevasa e inascoltata di pragmatismo, di amore verso i propri difetti e verso l’umiltà di avere, almeno, una coscienza pulita con cui addormentarsi la sera.
A mio modo di leggere e di soffrire queste prime 12 ore senza Paolo Villaggio, l’italiano ancora non ha fatto sua questa doverosa e fortificante “lavata di capo” portata in grembo dalla coppola del rag. Ugo (o, se vogliamo, dalle allucinazioni mistico-religiose che raggiungeva quando si trovava in punto di pre-decesso cardio-circolatorio).

Non ce lo siamo ancora meritato, insomma, un personaggio così.
Potrei anche dire, planando dolcemente verso il suolo e, con esso, verso la conclusione dell’articolo, che i suoi rutti erano e rimarranno ancora più liberi dei nostri.
Perché il bello è anche questo; con la morte non finisce mai nulla.
L’Italia, paese che amo più di me stesso, avrà sempre la fortuna di avere un’occasione di riflessione in più rispetto al resto del mondo.
Dobbiamo soltanto coglierla.
Non farlo sarebbe davvero (anche quella) “una cagata pazzesca!”.

Ciao Paolo. Ci mancherai da morire.

 
 
33 anni, parte di questi trascorsi inutilmente nel tentativo di scrivere una biografia seria e sensata. Forse questa è la volta buona (lo dico sempre!). Italiano e veronese, amante della comunicazione con ogni mezzo e a (quasi) ogni costo. Hellas Verona nelle arterie, musica jazz e le parole di un caro amico al momento giusto. Con la famiglia di VeronaNews per dare il meglio di me alla città che più amo al mondo.

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