Lavoro povero, una trappola per giovani

 
 

Se pensiamo al lavoro come ad una attività retribuita, svolta alle dipendenze di una impresa, che assorbe le classiche 40 o 38 ore settimanali (full-time), continuativa lungo tutto l’arco dell’anno solare (full-year, pari a 312 giorni all’anno), dobbiamo prendere atto che esso riguarda poco meno della metà dei lavoratori e delle lavoratrici veronesi. 

Stando infatti alle tabelle Inps relative alle retribuzioni dei lavoratori dipendenti del settore privato non agricolo del 2022 (ultimi dati consolidati disponibili) sono 165.413, su un totale di 332.483, pari al 49.8%, i lavoratori e le lavoratrici veronesi che nel corso del 2022 hanno collezionato tutte le 52 settimane retribuite che compongono un anno solare, senza presenza di lavoro a tempo parziale (vedi l’ultima colonna del grafico a fianco). Il dato locale risulta in linea con quello nazionale, che si attesta al 53,4%. Il resto dei lavoratori si dividono abbastanza equamente tra chi ha svolto lavoro continuativo per 52 settimane ma con presenza di tempo parziale (17,5%); chi ha lavorato tra le 29 e le 51 settimane (16,5%) e chi ha lavorato meno di 28 settimane retribuite (16%). 

NOTA METODOLOGICA. Va precisato che i dati Inps in questione conteggiano soltanto le settimane retribuite dal datore di lavoro (quindi quelle effettivamente lavorate), con esclusione di eventuali indennità quali malattia e cassa integrazione, il che rende rende il quadro approssimativo per difetto. Un lavoratore full-time a tempo indeterminato che abbia fatto della malattia durante l’anno non risulterà inserito tra i full-year al pari di un lavoratore a termine con contratto di durata inferiore all’anno. La serie statistica è comunque utile ad individuare alcune tendenze rilevanti.  

FULL TIME E FULL YEAR. I lavoratori continuativi (full-year) e a tempo pieno (full-time), ad esempio, non si distribuiscono omogeneamente per sesso e tanto meno per classe di età, ma presentano dei punti di massimo, attorno al 75%, tra i lavoratori 40enni e 50enni maschi, e punti di minimo tra le donne under 20 (appena l’1,9%) e i maschi under 20 (6,8%).

Nel mezzo tra i due estremi esiste una grande varietà di situazioni che sono specchio della disarticolazione del mercato del lavoro degli ultimi decenni e delle diseguaglianze di genere e di età che si fanno ancora pesantemente sentire. 

DONNE. Tra le donne, ad esempio, il lavoro full-time e full-year raggiunge un tetto massimo del 34-35% a partire dalla fascia delle 30enni, dopodiché il lavoro continuativo lungo tutto l’arco dell’anno  cresce quasi soltanto sotto forma di lavoro a tempo parziale. Dal 25,4% delle 30enni il part-time passa infatti al 37,8% tra le 40enni e al 39,3% nelle 50enni, con un evidente corrispondenza con i periodi della vita caratterizzati da maternità e bisogni legati all’accudimento. 

IMPIEGATE. Articolando l’analisi per qualifica professionale, tra le impiegate (l’ambito più femminilizzato: 61% donne, 39% uomini), troviamo i picchi massimi sia di lavoro continuativo full-time (40%) che part-time (40%) a partire dalle Quarantenni, mentre i maschi toccano picchi dell’80% nella prima categoria.

GIOVANI. Per i giovanissimi, maschi o femmine che siano, pare esserci una sorta di “scalone” di ingresso al mercato del lavoro: ben il 76,9% degli under 20, con poche differenze tra maschi e femmine, nel corso del 2022 ha lavorato meno di 28 settimane (54 giornate retribuite, in media).

Tale percentuale, altissima, si riduce ad un terzo (26,2%) tra i 20enni e ad un quinto (14,2%) tra i 30enni, per poi mantenersi al di sotto il 10% nelle due fasce di età successive dei più maturi (vedi grafico Totale Lavoratori nella pagina precedente). Affiancando le varie fasce di età, si nota che, parallelamente,  cresce la quota del lavoro continuativo full time, che è al 36,6% tra i 20enni e al 51,9% tra i 30 anni. 

Un andamento che da un lato riflette l’entrata ritardata dei giovani nel mercato del lavoro, ma  dall’altra parte molto probabilmente riflette anche il trasferimento – una sorta di esternalizzazione – della fase di adattamento al mondo del lavoro (ciò che una volta si sarebbe chiamato disciplinamento, che avveniva attraverso regolamenti stringenti, comprensivi di multe e sanzioni disciplinari) dall’interno dei luoghi di lavoro verso l’ambito del mercato del lavoro. 

APPRENDISTATO. Fa parzialmente eccezione il contratto di apprendistato che tra i 20enni e i 30enni aiuta a sostenere i livelli di lavoro continuativo full-time, riducendo contemporaneamente il part-time e i periodi di lavoro brevi. Se da una parte l’apprendistato aiuta la stabilizzazione dei redditi dei giovani e il lavoro “buono” dall’altra comprime i salari ed è una misura ovviamente temporanea e limita a meno di 15 mila lavoratori o lavoratrici.

RETRIBUZIONI. Non c’è ovviamente nulla di male nel lavorare secondo orari non convenzionali. Il punto, semmai, è che solo la condizione di full-timer continuativo (full-year) sembra assicurare un livello di reddito sufficiente a realizzare l’indipendenza economica che comunemente ci si aspetta da un lavoro. La retribuzione annua media dei 165.413 lavoratori o lavoratrici full-time e full-year ammonta infatti 34.749 euro lordi, che è il doppio della retribuzione media annua dei 58.302 lavoratori part-time continuativi (17.192 euro lordi) e più del doppio dei 55.509 lavoratori che durante l’anno ha lavorato tra le 29 e le 51 settimane (14.555 euro lordi). 

LAVORO POVERO. Esiste poi una vasta area composta da ben 53.259 lavoratori e lavoratrici (pari al 16% dell’intera forza lavoro) che nel corso dell’anno ha realizzato meno di 29 settimane retribuite con meno di 65 giornate retribuite e una retribuzione media di appena 4.451 euro annui lordi. Si tratta di una fascia in cui le differenze più evidenti non sono tanto quelle di genere (sono 26.053 maschi e 27.206 femmine), ma di età: quasi la metà (23.886, pari al 44,8%) sono giovani under 30 (precisamente 6.109 under 20 e 17.777 ventenni). Inoltre, estendendo un pochino di più la categoria di “giovani”, il 65% (34.533 lavoratori in valore assoluto) sono lavoratori under 40. E’ molto probabilmente qui che, a seconda della concrete condizioni economiche, dei rapporti famigliari e della disponibilità di reti sociali di sostegno, si annida il lavoro povero. Se consideriamo che in totale i lavoratori under 30 sono 75.920 (come risulta dalla somma di 67.977 ventenni e 7.943 under 20)  e gli under 40 sono 151.052, possiamo considerare che il 31,5% dei lavoratori under 30 (quasi uno su tre) oppure, se si preferisce, il 22,9% degli under 40 (quasi uno su quattro) sono a rischio di lavoro povero. Contro la pubblicistica corrente, possiamo infatti ragionevolmente escludere che siano tutti figli di papà o, come si ama dire adesso, “divanisti”. 

IL COMMENTO. “Se non facciamo lo sforzo di andare oltre ai macrodati e approfondire le reali condizioni di vita e di lavoro di lavoratori e di lavoratrici, si rischia seriamente di perdere la bussola e con essa anche il contatto con la realtà” è il commento della Segretaria Generale Cgil Verona Francesca Tornieri. “Da mesi sentiamo magnificare i dati sull’occupazione salvo poi scoprire, come ha fatto la Cgil di Roma, che il 48% dei nuovi contratti attivati all’interno dell’area metropolitana di Roma ha durata di un solo giorno. Oppure che anche nella ricca Verona esistono ampie sacche di lavoro povero; che per tanti giovani la strada verso un lavoro buono, stabile e decentemente retribuito rappresenta una sorta di via crucis o ancora che, malgrado gli slogan e gli annunci,  gran parte delle donne restano costrette a dividersi tra lavoro retribuito e lavoro gratuito di cura per carenza di servizi pubblici”. 

“Da troppo tempo mancano politiche fiscali e industriali necessarie al Paese a riprendersi il proprio destino nelle mani – aggiunge – per rilanciare lo sviluppo, potenziare i servizi e aiutare le persone in difficoltà. La precarietà che oggi produce lavoratori poveri produrrà domani pensionati poverissimi e una società sempre più disuguale. E’ necessario ridurre i contratti atipici, rilanciare la contrattazione collettiva e sostenere i salari che in questi anni di inflazione hanno subito un taglio netto solo in parte recuperato dai nuovi contratti” conclude la Segretaria Cgil.

 
 

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