Al Filarmonico va in scena il “Don Pasquale”…veronese

 
 

“Meritato successo per la ripresa del bell’allestimento di Don Pasquale firmato da Antonio Albanese, concertato da Alvise Casellati con un cast ben assortito capeggiato dalla Norina di Ruth Iniesta”.

Questo l’incipit di Andrea R. G. Pedrotti, – Apemusicale.it – la cui esegesi dello spettacolo, che mancava da quasi sei anni al Teatro Filarmonico, insiste sull’accostamento con Verona.

Nel merito, “il Don Pasquale si discosta dalla tradizione per ambientazione cronologica: è trasposto negli anni ’50-’60 del XX secolo, e geograficamente con le vicende ambientate in un’azienda vitivinicola della zona, apparentemente della Valpollicella, considerando la presenza sul palco di grandi casse con la scritta “amarone” ben leggibile. Altro riferimento alla città è il mutamento del testo della lettera che Ernesto indirizza a Norina, dove la frase “lascio Roma oggi stesso” diviene “lascio Verona oggi stesso”.

Il ricco possidente Don Pasquale è un produttore di vino, il dottor Malatesta più un commercialista che un medico, Norina una fittavola delle campagne veronesi, mentre tutti gli altri personaggi sono inquadrati nel solco della tradizione seguita da molti teatri del mondo.

La regia funziona nel complesso, tranne per il coro “Che interminabile andirivieni” che, eseguito in platea, non consente di apprezzarne appieno l’insieme al pubblico assiso nei pressi e non risulta visibile dalle gallerie.

La compagnia vocale è guidata dalla Norina di Ruth Iniesta, la quale affronta con sicurezza e precisione la scrittura musicale, trovando maggior agio nel registro centrale e in quello acuto. Il soprano spagnolo si impone anche scenicamente, grazia una recitazione frizzante e spiritosa, che mai abbandona la raffinatezza e strappa convinte risa al pubblico veronese, specialmente nel finale del secondo atto.

Federico Longhi (Malatesta) affronta il ruolo con grandissima intelligenza musicale; vocalmente preciso e mai in difficoltà, si mette in luce per il bel fraseggio e le sue note qualità d’attore.

Carlo Lepore, a sua volta, è un Don Pasquale convincente, a suo agio nella scrittura donizettiana e conforme alle intenzioni registiche di Albanese che, giustamente, asciugano e purificano l’interpretazione da tutte le sovrastrutture che la tradizione ha consegnato alla recitazione di Don Pasquale, come di altre opere.

Ernesto era il tenore lucchese Marco Ciaponi, che conferma le belle caratteristiche di tenore lirico, in una parte che gli è particolarmente congeniale per tessitura. Lo squillo è luminoso e la recitazione rispetta l’immagine di un Ernesto stretto, piacevolmente seppur ignaro, nel vantaggioso intrigo di Norina e Malatesta.

Completava il cast Alesando Busi, tonante notaro.

Massimo artefice del felice esito del pomeriggio al Filarmonico è stato, senza dubbio, il maestro concertatore Alvise Casellati, capace di ottenere dall’orchestra areniana la miglior prova stagionale. Le sezioni sono coese, il fraseggio è adeguato, l’agogica è funzionale. Pur non disponendo di un organico capace di grandi sfumature dinamiche, Casellati, sfrutta al meglio le qualità a disposizione, a gran vantaggio della qualità. Massimo merito del direttore veneziano è la gestione del rapporto fra buca e palcoscenico, precisa e inappuntabile in ogni momento dell’opera. Molto belli alcuni accenti richiesti all’orchestra in principio dell’Ouverture.

Come sempre lode convinta va al coro della Fondazione Arena, da sempre punto di forza della locale istituzione musicale. Ovviamente l’apprezzamento si estende al maestro del coro Vito Lombardi, per la capacità di mantenere a un tale livello in un momento di nota difficoltà economica.

La regia di Antonio Albanese era ripresa da Roberto Maria Pizzuto, con le scene di Leila Fteita, i costumi di Elisabetta Gabbionetta e il disegno luci di Paolo Mazzon.

Tutte le maestranze erano dell’Arena di Verona, parimenti proprietaria dell’allestimento.

Unico peccato è stato il taglio di alcune battute, ininfluenti per la durata complessiva dello spettacolo, e inciampi del primo violoncello della Fondazione nell’assolo iniziale dell’Ouverture e, ancor più palese, della tromba prima dell’Aria di Ernesto” – conclude Pedrotti di Apemusicale.

 
 

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