Libro “26 aprile1945”: senza il ricordo non c’è futuro

 
 

Sala gremita giovedì (26 aprile) sera al palatenda del Circolo I° Maggio a Montorio, da oltre 250 persone per la presentazione del libro “26 aprile 1945. Una lunga scia di sangue tra Montorio, Ferrazze e San Martino Buon Albergo”, promosso dall’Associazione montorioveronese.it con il patrocinio della Circoscrizione VIII.

La serata dedicata alla memoria dei fatti e delle vittime morte il 26 aprile 1945 è stata presentata da Roberto Buttura, con interventi di Carlo Saletti e Ivano Palmieri. Presenti gli autori del libro Cristian Albrigi, Gabriele Alloro e Roberto Rubele.

Molti gli ospiti. L’Assessore Ilaria Segala in rappresentanza dell’amministrazione Comunale di Verona, Assessore alla Pianificazione urbanistica, il Presidente della Circoscrizione VIII Dino Andreoli assieme ai Consiglieri della Circoscrizione 8^ Alma Ballarin, Carlo Beghini, Lucio Tosi, Elena Adami, la Consigliere comunale Anna Leso, Bruno Carmi Presidente del Consiglio della Comunità ebraica di Verona, Bartolomeo Costantini ex procuratore della Repubblica al tribunale militare di Verona, Edoardo Fornas Comandante della Stazione dei Carabinieri di San Michele Extra, Giancarlo Fincato figlio del Colonnello Giovanni Fincato, medaglia d’oro al valor  militare e i gruppi alpini di Montorio e Novaglie.

Carlo Saletti ha proposto un’interessante analisi e riflessione sul binomio cultura e barbarie: un rapporto non antinomico che in determinate condizioni, come quella presente nella Germania tra le due guerre mondiali si può sviluppare. Una posizione che lo stesso Saletti definisce scomoda e un pensiero al quale “si vorrebbe fuggire” ma che porta all’istituzione di un sistema di occupazione che a Verona è particolarmente oppressivo e ben ricordato dai testimoni. In un’intervista Giovanni Dusi ricorda che “Verona era una città angosciante, con quelle squadre armate, quei fascisti che giravano dappertutto”. Un sistema gestito da una generazione colta, definita dalla storiografia “generazione dell’assoluto”. Secondo lo storico, “dovremmo abituarci all’idea che la cultura certe volte sia la migliore alleata del genocidio”.

Un questo clima, nel momento in cui la guerra giunge al termine Montorio si trova ad essere attraversata dalla storia. Saletti definisce questo frangente come uno di quei “momenti in cui la storia attraversa i corpi”. Ciò si è reso evidente con la strage di civili.

Ivano Palmieri entra in profondità nel volume ricordando che la principale preoccupazione degli autori, nell’interrogare i testimoni, data infatti la grande scarsità di fonti scritte e ufficiali, e dato lo stato di incertezza in cui versava la memoria dei tragici eventi di quel 26 aprile 1945 a Montorio e Ferrazze, è stata una corretta e scrupolosa, per quanto possibile, ricostruzione dei fatti. Opportuno il proposito degli stessi di mettersi idealmente sulle tracce della colonna tedesca in ritirata e seguirla nello spazio che percorse, verificandone passo dopo passo il quasi sempre ruvido, e tragico, impatto sulla popolazione civile. Un simbolico atto teatrale drammatico con quattro protagonisti collettivi che interagiscono: i tedeschi in ritirata, la popolazione, i partigiani e gli alleati.

Ma i “cori” principali sono i primi due, i tedeschi incolonnati, diretti alle Ferrazze e a San Martino Buon Albergo, autori di due stragi e quindi senz’altro “carnefici”, e la popolazione del luogo, inoffensiva, e che deve patire dai tedeschi una serie di violenze e di sopraffazioni: vittime, quindi, contrapposte ai loro carnefici. Due attori che si muovono sulla scena in modo opposto: le azioni dei montoriesi sono per lo più reazioni a ciò che decidono e fanno i tedeschi, e in loro prevalgono, in luogo di programmazione e organizzazione, il riflesso difensivo, l’intuito e l’improvvisazione, e molto spesso per loro a decidere è il cieco caso.

Inquadrando gli eventi in una visione più ampia, dietro le stragi di Montorio e Ferrazze si riconosce più che altro il rabbioso sconcerto dei tedeschi per un brusco cambio di prospettive nella guerra, dalla comoda e ben arroccata difesa di una posizione statica, a un ripiegamento veloce in mezzo ad una popolazione tendenzialmente ostile, e ritrovandosi facile bersaglio delle azioni partigiane: azioni, da parte loro, spesso però intempestive e scoordinate causa difficoltà di comunicazione fra i comandi e le prime linee e con gli Alleati.

In questo contesto le interviste del libro lasciano trapelare una “difficoltà a riferire” e che la popolazione di Montorio ebbe – ed ha – dovuta alla percezione che le stragi non ci sarebbero state se qualcuno, improvvisatosi partigiano e vendicatore, non avesse inutilmente sparato contro la colonna già in fuga; e la “resistenza” a fare il nome di questo qualcuno e a chiarire i fatti fino in fondo esprime un’altra difficoltà, quella a riconoscersi in modo pieno ed esclusivo nel pur oggettivo ruolo di vittime, e forse anche un vago senso di colpa collettivo. Si tratta di sfumature storicamente non insignificanti, e che è proprio delle fonti orali portare alla luce.

La serata si è conclusa con i saluti degli autori e con un intenso quanto lucido intervento di Giancarlo Fincato. Ha ricordato quando, un pomeriggio di agosto del 1944, all’età di 11 anni, mentre si trovava a Mizzole, sfollato, ospite con la famiglia nella villa di Euno Poggiani, entrò nella corte un’automobile dalla quale scesero due persone che prelevarono il padre Giovanni Fincato, per portarlo nelle carceri presso il Teatro Romano. Per un numero imprecisato di giorni sua madre è andata a bussare alla porta del carcere per avere notizie del marito fino a quando le fu riferito che l’ostaggio era stato consegnato nelle mani dei tedeschi per essere deportato in Germania. Solo nell’aprile 1945, a conclusione della guerra, Giancarlo scoprì come in realtà, si erano svolti i fatti: suo padre è stato ripetutamente torturato affinché rivelasse i nomi dei suoi collaboratori. Davanti al rifiuto di parlare del colonnello Fincato gli aguzzini lo uccisero. Non sapendo come gestire la situazione avvolsero il corpo in un sacco e lo gettarono nell’Adige a Pescantina. Il corpo non fu più ritrovato. Successivamente gli autori dell’assassinio furono arrestati a fine aprile 1945, processati a Verona e condannati a forti pene. Con l’amnistia De Gasperi Togliatti nel 1946 – 1947 vennero liberati tutti tranne uno perché il provvedimento prevedeva che per poter essere libero, l’autore di efferati crimini, doveva ottenere il perdono giudiziario. La madre di quell’uomo ancora in carcere dopo un lungo viaggio dal sud dell’Italia arrivò dalla madre di Giancarlo a chiedere il perdono giudiziario. Dopo aver sentito i figli e il sacerdote don Calabria la signora Fincato concesse il perdono e anche quest’ultimo aguzzino fu liberato.

“Chi è stato torturato rimane torturato. […] Chi ha subito il tormento non potrà più ambientarsi nel mondo, l’abominio dell’annientamento non si stingue mai. La fiducia nell’umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista più.” (P. Levi)

Alberto Speciale

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(Intervento di Giancarlo Fincato)

 
 
Classe 1964. Ariete. Marito e padre. Lavoro come responsabile amministrativo e finanziario in una società privata di Verona. Sono persona curiosa ed amante della trasparenza. Caparbio e tenace. Lettore. Pensatore. Sognatore. Da poco anche narratore di fatti e costumi che accadono o che potrebbero accadere nella nostra città. Ex triatleta in attesa di un radioso ritorno allo sport.

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