Il cons. Bonato e i tre ecclesiasti; la mozione per intitolare tre vie alla memoria dei “giusti”

 
 

Sulle strade del ricordo…

Riconoscenza e devozione sono ponti (loro sì, indistruttibili) che collegano passato e presente in modo diretto, coerente e preciso.
È di ieri la notizia che, in tal senso, il consigliere comunale Mauro Bonato ha protocollato una mozione per l’intitolazione di tre vie o piazze ad altrettanti personaggi la cui storia è meritevole d’essere ricamata e incisa nelle strade dei ricordi della nostra città.

«Al protocollo generale del comune esistono mozioni per intitolare via Giorgio Almirante, Palmiro Togliatti ed altri  – afferma in una nota Bonato –  Per controbilanciare queste proposte, e per andare oltre gli insegnamenti di San Pio X è giusto intitolare una via o piazza a Padre Emilio Recchia che salvò a Roma numerosi ebrei durante il secondo conflitto mondiale; a mons. Pio Vidi che fu testimone delle persecuzioni dei boxer contro i cristiani e a Madre Pia Gullini, una testimone
dell’ecumenismo
».

I PROTAGONISTI 

Padre Emilio Recchia
(Verona, 19 febbraio 1888 – Roma, 27 giugno 1969)

Padre stimmatino che salvò gli ebrei dai campi di concentramentoe  che nel 2014 divenne “Giusto fra le nazioni”. A Roma, nel periodo dell’occupazione nazista dopo l’8 settembre del 1943 e fino al giugno del 1944 la basilica di Santa Croce fu rifugio sicuro per centinaia di ebrei. Don Emilio Recchia, Padre stimmatino, di cui è in corso il processo di beatificazione e parroco di Santa

Croce, ospitò a rischio della propria vita in alcuni locali segreti della chiesa una nutrita comunità ebraica salvandola dalla deportazione. Don Emilio, con l’ausilio di sette sacerdoti, aprì le porte della Chiesa a tutti coloro che si sentivano in pericolo. Si raggiunsero i duecento ospiti, che avevano abbandonato le loro case per sfuggire ai campi di concentramento e alla morte. C’erano anche alcuni ufficiali del disciolto esercito italiano.

Don Emilio Recchia era nato a Verona il 19 febbraio 1888 ed è scomparso il 27 giugno del 1969. Entrato nella congregazione degli Stimmatini a 15 anni divenne sacerdote nel 1911 e dopo varie esperienze pastorali fu inviato nella parrocchia romana di Santa Croce al Flaminio. C’è comunque un Santo che pur non avendo mai incontrato Don Emilio sapeva tutto di lui; era San Pio da Pietralcina che talvolta, quando si imbatteva per le confessioni o per consigli con fedeli provenienti da Santa Croce al Flaminio, rispondeva loro con il suo modo burbero: «ma perché non andate dal vostro Don Emilio ?».

Nel 2014 Yad Vashem l’istituto israeliano per la commemorazione dei martiri e degli eroi dell’olocausto ha assegnato ai parenti di Don Emilio Recchia e a quelli di Padre Alberto Tambalo che fu suo vice nella stessa basilica in quel periodo, la medaglia di “Giusto fra le nazioni” alla memoria. Per Don Emilio Recchia è in fase avanzata il processo di beatificazione.

Madre Pia Gullini
(Verona, 16 agosto 1892 – Vitorchiano, 29 aprile 1959)

Una monaca, con la passione dell’unità dei cristiani e l’ideale ecumenico. «La vita contemplativa senza una grande fiamma interiore è solo una vita vegetativa, una vita impossibile»
Secondo le sapienti disposizioni di Dio, Madre Pia ha dovuto formarsi a Laval e vivere la vita trappista in Francia durante 9 anni; è dovuta rientrare in Italia e vivere a Grottaferrata durante 25 anni, prima nel nascondimento e nell’umiliazione, poi nelle preoccupazioni continue – materiali e spirituali – dell’abbaziato, facendosi plasmatrice di coscienze monastiche e anima-tramite per elevare tante persone a Dio; ha sopportato le angustie e le miserie della Seconda guerra mondiale; ha ripreso la guida della comunità e ne è stata poi allontanata in maniera umiliante e con ragioni, a nostro parere, ingiuste e scorrette; ha vissuto da esiliata a La Fille-Dieu durante 8 anni, lasciando che il Signore cesellasse la sua opera in lei mediante il silenzio, la solitudine, il nascondimento, le privazioni e l’amore fraterno, ma anche attraverso un’intensa vita di preghiera e di grazie mistiche; ha obbedito con gioiosa prontezza, tornando in patria gravemente ammalata; crocifissa con Cristo, non vivendo più lei, ma lasciando che Cristo vivesse in lei, si è spenta nella libertà di un supremo distacco, senza vedere la sua comunità, né il luogo dove sarebbe stata sepolta.
La comunità di Vitorchiano e le sue case-figlie hanno saputo accogliere e realizzare l’eredità di Madre Pia, che consiste sostanzialmente nell’amore a Dio e al prossimo, alla Chiesa, all’Ordine, alla missionarietà. Attraverso la completa dedizione delle loro superiore e l’intelligente ed equilibrata lettura dei segni dei tempi e del passaggio epocale che il mondo sta attraversando, hanno reso possibile il compimento concreto del desiderio di Madre Pia.
La Madre, con la sua natura ardente, avrebbe voluto popolare di monasteri il mondo, ma avrebbe soprattutto voluto che fosse incarnata quella sua tensione al massimo amore.

Nella vita e nel pensiero di M. Pia l’anelito all’unità era sempre presente. Come nacque e si sviluppò in lei l’ideale ecumenico? La passione per l’unità dei cristiani doveva datare in M. Pia fin dai tempi della sua vita a Laval, prima del suo rientro in Italia nel 1926, ma l’incontro con un’insegnante francese, Henriette Ferrary, che nel 1933 venne a visitarla a Grottaferrata, fu decisivo per la maturazione in lei dell’ideale ecumenico, che in quegli anni si andava affermando in Francia con un’intensità particolare. Nella sua passione per la Chiesa una, M. Pia divenne suscitatrice di anime ecumeniche: nel 1936 l’abbé Paul Couturier, grande promotore del movimento ecumenico spirituale, avvisato da Henriette, inviò per la prima volta a Grottaferrata il suo tract in preparazione dell’ottava di preghiere per l’unità e M. Pia, nel gennaio 1937, lo lesse alla comunità radunata nella sala capitolare. P. Couturier accennava ad alcune persone, laiche e consacrate, che avevano offerto la loro vita per impetrare da Dio il dono dell’unità. Appena letto l’annuncio, un’anziana monaca, M. Immacolata Scalvini, lo accolse come proposta che il Signore indirizzava direttamente a lei. Fatta l’offerta, si spegneva qualche mese dopo. L’anno successivo l’invito di P. Couturier fu riproposto da M. Pia alle sue monache e trovò una risonanza inaspettata nel cuore di una suora sarda di 23 anni, Maria Gabriella Sagheddu, che si sentì spinta ad offrire la sua giovane vita per la grande causa dell’unità. L’offerta, accettata dal Signore, si consumò molto rapidamente: Maria Gabriella moriva il 23 aprile 1939, distrutta dalla tisi.
L’Abbé Couturier, avvisato da M. Pia dell’offerta delle due monache di Grotta, aveva messo al corrente il suo amico D. Benedict Ley dell’abbazia benedettina anglicana di Nashdom: fu questo il principio di un’amicizia fraterna fra i monaci anglicani e le sorelle di Grottaferrata.

Mons. Pio Vidi (al secolo Alessandro Domenico Antonio) –
(Verona, 1 maggio 1842 – Malta 18 agosto 1906)

Un missionario veronese in Cina alla fine dell’Ottocento, testimone della rivoluzione dei Boxer. Pio Vidi, al secolo Alessandro Domenico Antonio nasce a Verona il 1 maggio 1842 da Gaetano, negoziante e possidente, e da Ludovica Ferroni. Dopo, la scuola elementare, frequentò il Ginnasio municipale dal 1853 al 1856, dove verrà segnalato per talento e profitto, e premiato nel 1856.
Indossato l’abito dei frati minori osservanti, l’8 novembre 1857, nel convento a San Pancrazio di Barbarano, con la vestizione assunse il nome di Pio. Dopo l’anno di noviziato fu il primo della provincia ed emettere i voti semplici, in base alle nuove disposizioni di Pio IX. Emise la professione solenne, dopo tre anni, nel convento di S. Giuseppe a Brescia. Compiuti gli studi filosofici a Venezia e quelli teologi a Verona, sostenne con il compagno di studi, Guido Corbelli da Cortona, futuro arcivescovo titolare di Perusio e delegato apostolico dell’Egitto, una disputa teologico-dogmatica di 60 tesi davanti al vescovo veronese mons. Luigi di Canossa.
Ordinato sacerdote il 16 maggio 1865, date le continue richieste di missionari per la Cina, decise di partire per quella stazione missionaria, con il confratello Pier Paolo De Marchi da S. Vito al Tagliamento, futuro Vicario Apostolico di Chan-tong. Superate innumerevoli difficoltà, nello stesso anno riesce a penetrare nel cuore della Cina nello Shensi. I primi due anni di missione furono caratterizzati da enormi difficoltà per l’estrema povertà dei quel territorio dove erano continui i saccheggi, le uccisioni e gli incendi dovuti alla cosiddetta rivoluzione dei Tchan-mao.
Al suo arrivo, si contavano circa novemila cristiani sparsi in 17 città del distretto. Nominato provicario generale, s’impegnò per diciassette anni nel riparare le rovine causate dai ribelli. Fu in prima linea nel riedificare le chiese distrutte e nel costruirne di nuove; avviò orfanatrofi, scuole, asili e centri missionari con l’organizzazione dell’opera dei catechisti.
Grazie al su temperamento e alla sua disponibilità riuscì a farsi rispettare dalla popolazione pagana e anche dai potenti mandarini.
Oltre alle sue attività apostoliche si dedicò allo studio della difficile lingua, della storia e della letteratura cinese riuscendo a scrivere in maniera elegante anche in quella lingua. Appassionato di geografia, dipinse con particolare precisione una vasta carta geografica murale del vicariato dello Chen-si, conservata per molti anni preso l’Ateneo Antoniano di Roma. Studioso di medicina riuscì ad aprire alcuni ospedali e convalescenziari per i poveri; appassionato di architettura progettò e fece costruire alcune chiese, adattando gli elementi architettonici europei a quelli cinesi, fra cui primeggia quella edificata nel 1877 a Si-ngan-fu, metropoli di tutta la provincia dello Chen-si. Per quella chiesa disegnò anche i dipinti e gli arredi sacri.
Dopo gli anni della permanenza nello Shensi, fu richiamato dal vicario apostolico, mons. Efisio Chiais, nella residenza episcopale; nominato vicario generale e rettore del seminario della missione, insegnò filosofia, dogmatica e morale.
A Shian-fu superate le difficoltà con i Mandarini locali costruì la cattedrale, unico edificio e gioiello d’arte che rimase incolume alla rivoluzione del 1900 e il seminario per i sacerdoti del luogo.
Dopo due anni di intensa attività, il 24 agosto 1886 viene nominato vescovo titolare di Cestro in Isauria e coadiuatore con diritto di successione del Vicario Apostolico mons. Amato Pagnucci.
Mons. Pio Vidi, secondo vescovo veronese missionario in Cina, dopo Ludovico De Besi, venne consacrato Vescovo, il 9 gennaio 1887. Con questa importante nomina iniziarono i suoi problemi di salute, tanto da costringerlo l’anno successivo al rientro in patria. Fu accompagnato in Italia da due giovani cinesi che indossarono l’abito religioso di san Francesco, nella provincia toscana di S. Bonaventura, e diedero inizio alla schiera dei sacerdoti francescani “indigeni”.
Trascorse quattro anni in Italia. Era di stanza nel convento di san Bernardino a Verona ed aiutava nella cura pastorale il vescovo Luigi Di Canossa.  E’ di questo periodo un suo famoso discorso, tenuto, nel giorno dell’epifania del 1889, a sant’Eufemia, in occasione della festa della Santa Infanzia. Durante il sermone egli parlò dell’infanzia abbandonata ricordando molti infanticidi di cui fu testimone in Cina. Dopo la morte della madre avvenuta in Baviera, nel 1892, riparte per la Cina nel 1893, con al seguito sette missionari e dodici suore francescane.  A causa di una salute cagionevole, potrà rimanere in missione solo per altri sei anni. In questi anni è testimone della persecuzione spaventosa, crudele e sterminatrice del Boxer. Per difendersi dai ribelli fu edificata una forte muraglia attorno agli edifici dei cristiani, costruzione ritenuta provvidenziale, quando nel 1895 i mussulmani cinesi della provincia dello Kan-son ribellatisi minacciarono l’invasione del vicariato cattolico. In quegli anni moltissimi missionari furono massacrati e la maggior parte delle Chiese cattoliche furono distrutte.
Questi eventi questi che furono letali alla salute di mons. Pio Vidi.
Colpito da setticemia e da un esaurimento preoccupante è obbligato ad un immediato rientro in Italia. Partito nel 1899, riuscì a stento a raggiungere Alessandria d’Egitto, per raggiungere successivamente nel 1900, prima Napoli e poi Malta. Rinunciata la coadiutoria di Chensi, visse nei conventi di Sliema e La Valletta senza poter ritornare nella sua Verona. Morto, compianto dai maltesi, il 28 agosto 1906, gli vennero tributate solenni onoranze nella capitale dell’isola e uffici funebri a Verona e a Venezia. In occasione del cinquantesimo anniversario dalla morte, nella sua città natale furono celebrate alcune manifestazioni in suo ricordo e inaugurata una lapide nel convento di san Bernardino.

 
 
33 anni, parte di questi trascorsi inutilmente nel tentativo di scrivere una biografia seria e sensata. Forse questa è la volta buona (lo dico sempre!). Italiano e veronese, amante della comunicazione con ogni mezzo e a (quasi) ogni costo. Hellas Verona nelle arterie, musica jazz e le parole di un caro amico al momento giusto. Con la famiglia di VeronaNews per dare il meglio di me alla città che più amo al mondo.

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