I Bompieri brothers, fratelli d’America: Paolo ed Elena, dal Garda al college

 
 

Prima lui, partito per gli Stati Uniti nel gennaio del 2017, poi lei, un anno dopo. È la storia dei fratelli veronesi Paolo ed Elena Bompieri, che hanno deciso di lasciare la loro Peschiera del Garda e di proseguire gli studi Oltreoceano, con la racchetta da tennis a fare da lasciapassare per accedere a uno delle centinaia di college americani che arruolano studenti-atleti da tutto il mondo. Lui, classe 1997, ha scelto la Carolina del Nord e la Queens University of Charlotte, mentre la sorella, di un anno più giovane, ha spostato base e ambizioni circa 150 miglia più in là, alla University of South Carolina di Aiken, nella Carolina del Sud. Lontanissimi da casa, ma vicini – anche geograficamente – l’uno all’altra, a coltivare quel progetto che unisce sport e studi, e che miscela il tutto con nuove conoscenze, varie culture a confronto e tante esperienze impareggiabili. Una possibilità che stuzzicava entrambi da tempo, e alla quale hanno deciso di dare una chance. “Non avevo la più pallida idea di come funzionasse il mondo dei college – racconta Paolo dagli States -, ma grazie all’aiuto di StAR è stato tutto più facile. Corrado Degl’Incerti Tocci si è messo a completa disposizione mia e della mia famiglia, e una volta deciso di partire mi ha fornito un elenco di college disposti a offrirmi una borsa di studio, e mi ha spiegato i pro e i contro di ognuno”. Oggi Paolo sta affrontando una doppia laurea in economia e matematica, e le difficoltà dei primi tempi sono un lontano ricordo. “Faticavo con la lingua – continua -, quindi mi sentivo un po’ perso. Ma è durato poco”. I compagni di team e il coach della squadra l’hanno aiutato tantissimo, creando come una grande famiglia, e lui ha ricambiato con i risultati sul campo da tennis, trascinando i “Royals” verso tante soddisfazioni.

Il valore di sentirsi parte di un team è uno degli aspetti preferiti anche dalla sorella, che invece studia Exercise and Sport Science (l’equivalente della nostra Scienze Motorie). “Essere parte di un team – dice – significa stare sempre a contatto, allenarsi insieme e aiutarsi a vicenda”. In campo, ma anche negli studi, resi più agili da un sistema che aiuta gli atleti. “La scuola – prosegue – ci ritiene importanti, quindi ci permette di saltare delle lezioni quando abbiamo degli incontri, oppure spostare degli esami quando siamo in trasferta con la squadra”. E anche l’impostazione data alle lezioni è diversa rispetto a quanto avviene in Italia. “Si fanno progetti, simulazioni e si affrontano problemi reali – dice ancora Paolo -, e il college è a contatto diretto col mondo del lavoro. Questo permette agli studenti di crearsi un network al di fuori della scuola”. Un’opportunità tanto importante che entrambi i fratelli sembrano già orientati sulla possibilità di restare negli Stati Uniti anche al termine degli studi. “Sicuramente – chiude Paolo – una volta terminato il college inizierò a lavorare qui. Poi valuterò cosa fare”. Della stessa idea la sorella, che pensa già a un Master, per arricchire ulteriormente il suo sogno americano. “Chi si trova di fronte a una possibilità simile – chiude – dovrebbe fare un tentativo. C’è lo studio, c’è lo sport, e si matura prima”. Lo ripetono tutti quelli che ci sono passati.

 
 

1 COMMENTO

  1. Bravi e coraggiosi. Qui invece, le nostre università autoreferenziali, martirizzano gli studenti, specialmente in certe facolta’ come ingegneria, dove gli esami li devi fare anche 8 volte e dove, in certe materie, la media di superamento è tra il 3 e il 5% e conosci il risultato anche dopo 60 giorni, magari poche ore prima del nuovo appello!!!! Pare macelleria sociale. Viene spontaneo chiedersi anche a cosa servano i test d’ingresso se poi si viene martirizzati nel percorso sulla astratta teoria; sono test di ingresso per….. l’inferno. Gli abbandoni infatti rasentano i 4/5 ; oppure gli studenti temerari insistono per poi laurearsi non in tre anni ma in otto- dieci. Vale la pena? Non lamentiamoci se poi in Italia mancano ingegneri e dobbiamo importarli, anche se nessuno dall’estero ha nella mente di venir a fare l’ingegnere qui. Non parliamo poi delle carenze di medici per i quali non si comprende assolutamente il senso di un numero chiuso, in se giusto ma ottuso e privo di logica e programmazione per come è strutturato. Siamo alle solite: povera italietta!

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